
Fa’ la cosa giusta: olio di palma, cosa ne sappiamo veramente?
L’olio di palma è il grasso vegetale più diffuso e consumato al mondo. È utilizzato nel settore alimentare, cosmetico, farmaceutico, energetico (per la produzione di biodiesel) e in quello dei mangimi. In campo alimentare si trova un po’ ovunque. Nei comuni prodotti da forno confezionati, sia dolci sia salati, quindi in cracker, fette biscottate e grissini, merendine, biscotti e cereali per la prima colazione. Nella confetteria e cioccolateria (creme spalmabili in primis). Nei gelati, nelle basi fresche o surgelate per la preparazione di torte salate, pizze e focacce. E, ancora, in molti piatti pronti, precotti o prefritti e nei prodotti per la prima infanzia: dal latte ai biscotti da sciogliere nel biberon. È poi presente in: saponi, shampoo, dentifrici, cosmetici, detergenti per la casa, materie plastiche.
Alla XIV fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, Fa’ la cosa giusta (10-12 marzo 2017), è stato creato un percorso-mostra per saperne di più ed educare tutti al consumo. L’olio di palma in origine è ricco di sostanze antiossidanti e carotenoidi, che vanno però quasi del tutto perse nei successivi passaggi di raffinazione e decolorazione, utili all’industria alimentare. È proprio quest’ultima a farne ampio uso: l’olio di palma costa meno di altri grassi vegetali, anche grazie all’elevata resa per ettaro della sua coltura.
Il tema centrale resta quello della salute: l’olio di palma fa male oppure no? Il nodo critico è il contenuto complessivo di acidi grassi saturi, superiore a quello di altri oli vegetali e vicino a quello dei grassi animali. Ha per questo un elevato potenziale aterogeno, cioè può favorire l’insorgenza dell’aterosclerosi, quel processo degenerativo a carico delle arterie, caratterizzato da accumulo di colesterolo e altri lipidi. Alla luce della letteratura scientifica disponibile, nell’ambito di una dieta bilanciata, l’olio di palma va consumato con moderazione. Non presenta però un profilo di rischio maggiore rispetto ad altri grassi con un elevato contenuto di acidi grassi saturi, ed è comunque meno dannoso rispetto alle margarine e ai grassi idrogenati.
L’olio di palma apre inoltre questioni ambientali legate alla coltivazione. Quest’olio, infatti, è tra i più utilizzati a livello mondiale: nel 2014 ha riguardato (insieme a quello di palmisti) oltre 60 dei 173 milioni di tonnellate di oli vegetali prodotti a livello mondiale (fonte: Usda, United States Department of Agricolture), superando il record che fino al 2012 era detenuto dall’olio di soia. Allora qual è l’impatto dell’olio di palma sull’ambiente? Quanti ettari di foresta sono stati bruciati per far posto alle piantagioni? E può esistere un olio di palma sostenibile? Nel solo Sud-Est asiatico ettari ed ettari di antiche foreste pluviali sono andate in fumo per fare spazio alle piantagioni, che negli ultimi 10 anni sono triplicate. Per il Wwf se si continua a questo ritmo, entro il 2020 le foreste indonesiane saranno distrutte. L’Africa è la nuova frontiera: nel 2014 in Nigeria sarebbero state prodotte 1.300.000 tonnellate di olio di palma, mentre dal 2009 al 2015 in Camerun sarebbero già stati rasi al suolo 70mila ettari di foresta.
Può allora esistere un olio di palma sostenibile? Per promuovere l’uso di olio di palma certificato (nel rispetto della natura e dei lavoratori, con la riduzione/eliminazione dei pesticidi, con l’attuazione di migliori pratiche di gestione), nel 2004 è nata la Roundtable on sustainable palm oil (Rspo), un’associazione senza fini di lucro che unisce produttori, trasformatori, commercianti di olio di palma, produttori di beni di consumo, rivenditori, banche, investitori e Ong. Le ha fatto seguito nel 2013 il Palm oil innovation group (Poig), creato da alcuni produttori e diverse organizzazioni non governative (tra cui Greenpeace e Wwf) per rafforzare regole e controlli.
di Marianna Castelluccio

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