Ha diritto a un risarcimento chi cade in depressione per stress da lavoro, anche se, per carattere, è una persona fragile e predisposta a drammatizzare i fatti. Lo ha sancito la Cassazione, esaminando il caso di una donna che aveva avviato una causa presso il tribunale di Milano contro l’Inail da cui pretendeva pagamenti, ritenendo che fosse stato lo stress lavorativo ad averle procurato una grave sindrome depressiva, con invalidità assoluta temporanea ed inabilità permanente del 75%.

Il ricorso della donna era però stato respinto sia in primo grado che dalla Corte d’appello milanese: quest’ultima, in particolare, aveva motivato la propria decisione sottolineando che "la ricorrente si era trovata, nel corso della vita, ad affrontare situazioni difficili o traumatiche, alcune non collegate all’attività lavorativa, fino ad arrivare ad una eccessiva drammatizzazione di quello che era un normale rapporto di lavoro con i suoi carichi e le sue responsabilità".

La Suprema Corte (sezione lavoro, sentenza n. 19434), ha invece annullato con rinvio la sentenza di secondo grado: "i giudici di appello – osservano gli ‘ermellini’ – hanno espresso la convinzione, non confortata da un accertamento medico legale sulle condizioni psichiche della assicurata né da adeguata motivazione, che l’attività di lavoro sia stata un’occasione di stress anziché una causa o concausa scatenante; hanno così escluso, senza alcuna motivazione, la possibile operatività del principio di equivalenza causale, che non esclude la sussistenza della professionalità della malattia anche in presenza di una intrinseca debolezza o predisposizione del soggetto".


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