“Una politica economica per la sostenibilità”. Documento approvato dal Direttivo di Legambiente
Da quando è nata, Legambiente ha sempre cercato di accompagnare la lettura e la denuncia dell’aggressione ambientale allo sforzo per delineare le iniziative possibili – anche se di duro impegno, ma possibili – per contrastare l’aggressione. E poiché molto spesso il degrado ambientale è "socialmente selettivo", nel senso che colpisce di più i più deboli, la nostra ambizione è stata di saldare, nella prospettiva della sostenibilità, il miglioramento della qualità della salute, dell’ambiente, del vivere, con la qualità sociale di tale miglioramento.
Nell’ultimo decennio, la questione della sostenibilità ha subito un’ accelerazione drammatica, scandita da almeno tre eventi che chiamano a prendere atto che il cambiamento dei modelli di produzione e di consumo e degli stili di vita, in particolare nei Paesi più ricchi del mondo, è questione che non riguarda più la sola sfera etica, ma investe le stesse condizioni materiali del vivere individuale e collettivo:
- lo sconvolgimento climatico dovuto prevalentemente all’impiego massiccio dei combustibili fossili, non rientra più nella categoria del principio di precauzione, della prevenzione del rischio – aumento della concentrazione dei gas "serra", dunque progressivo aumento della temperatura al suolo del pianeta, dunque progressiva alterazione delle condizioni climatiche -, ma appare piuttosto descrivibile come rottura della stabilità dei cicli climatici, con conseguenti, e già attuali, fenomeni meteorologici gravi e imprevedibili;
- il limite della disponibilità delle risorse fisiche del pianeta, in particolare dell’energia da combustibili fossili, prevedibile per un futuro ormai prossimo, pone l’alternativa tra l’uso razionale ed equo delle risorse e la violenza. E alcuni Paesi hanno scelto esplicitamente la via della violenza piuttosto che quella del cambiamento;
- l’innovazione tecnologica, mirata principalmente a vincere la competizione nel mercato piuttosto che a migliorare la qualità della vita, impone aumenti incessanti di produttività, distrugge lavoro, induce consumi di spreco, aggredisce l’ambiente.
Queste vicende sono sotto gli occhi di tutti, anzi le nuove tecnologie della comunicazione hanno reso "piccolo" il pianeta, tanto da rendere improbabile la stabilità politica di un mondo globale in cui tutti sanno, ad esempio, che il 14% delle persone consuma tanta energia quanto l’altro 86%. E forse, dopo le scene orribili dei giorni di New Orleans, sarà rimasta solo Oriana Fallaci a credere che quel 14% rappresenta anche una civiltà superiore, nel padroneggiare situazioni di grave emergenza come dal punto di vista della reciproca solidarietà.
E’ in questa realtà che dobbiamo operare il cambiamento. Una realtà, peraltro, gravida di rischi ambientali sempre più allarmanti, ma che offre al tempo stesso – specie in contesti come quelli italiano ed europeo – spazi inediti per l’affermazione di una prospettiva di riformismo ambientalista. E’ infatti evidente che i processi di globalizzazione – con la tumultuosa ascesa di nuovi formidabili competitori come Cina, India o Brasile – e altri fattori concomitanti a cominciare dal trend strutturale di prezzi del petrolio molto più alti che in passato, se da una parte alimentano i rischi di declino di economie quali la nostra, dall’altra rendono sempre meno promettenti in termini squisitamente economici i modelli di produzione e di consumo ambientalmente più insostenibili.
Insomma, oggi la riconversione ecologica dell’economia nel segno di un minore consumo di risorse naturali e di una decisa valorizzazione delle risorse territoriali – ambientali ed umane – si propone non solo come strategia ambientalista, ma come arma decisiva contro il declino: come profetizzava dieci anni fa, tra gli altri, Jacques Delors, sono le stesse difficoltà interne al mondo capitalistico che conferiscono appeal all’economia della sostenibilità, che la designano come straordinaria occasione per il rilancio dell’economia e dell’occupazione in Italia e in generale in Europa.
Malgrado tutto questo, finora le "parti sociali più forti" non paiono sufficientemente determinate a procedere verso il cambiamento, e anche la politica nel suo complesso fatica a comprendere il carattere del tutto inedito delle sfide in campo. Né si può dire che dall’opinione pubblica arrivino sufficienti sollecitazioni al cambiamento. Nonostante decenni di appassionata presenza dei movimenti ambientalisti, nonostante indubbi successi di forte impatto politico – uno per tutti, il più importante: l’entrata in vigore proprio quest’anno del Protocollo di Kyoto – e il consenso che la cultura ambientalista incontra ormai anche a livello di massa, non si sono ancora formate onde d’urto così potenti da imporre la sostenibilità come diritto prioritario e dunque a concretizzare scelte conseguenti sul terreno delle grandi politiche economiche. E la forte e generalmente diffusa sensibilità ambientale si attenua quando si passi alla pratica di atti concreti per il cambiamento di consolidate abitudini.
Anche rivolgendo lo sguardo all’Europa, si osservano segni preoccupanti di involuzione: la nuova Commissione guidata da Barroso sembra intenzionata ad assestare un nuovo e più deciso colpo a quel modello di economia sociale di mercato che è il più prezioso patrimonio della costruzione unitaria europea e senza il quale anche l’ambiente – interesse squisitamente generale e sociale – è destinato a venire penalizzato, e pare invece avviata a privilegiare indirizzi neo-liberisti e di sacrificio di un sistema di welfare che certo va riformato ma che sarebbe un delitto liquidare. A Bruxelles e in molte capitali dell’Unione europea, insomma, manca la consapevolezza che la coesione sociale e la stessa qualità ambientale non sono soltanto valore etici e civili, ma fattori di competitività.
Sia chiaro: gli anni a cavallo del nuovo secolo hanno marcato grandi e positivi mutamenti nell’opinione pubblica, primo fra tutti l’entrata in crisi del pensiero unico portata dai movimenti di critica della globalizzazione. Oggi larghi settori della società, nel Nord come nel Sud del mondo, rifiutano l’idea di uno sviluppo indifferente ai valori dell’equità sociale e della stessa qualità ambientale. Ma questi preziosi mutamenti di sensibilità non si sono per ora tradotti in una piena acquisizione della questione ambientale nell’agenda politica personale e sociale dei cittadini.
Infine, un altro problema che pesa negativamente sulla capacità dell’ambientalismo di proporsi come soggetto credibile del cambiamento è il "corto circuito" tra atteggiamenti di scarso rigore scientifico che talvolta affiorano nel mondo ecologista, e la crescente chiusura e autoreferenzialità di settori importanti della comunità scientifica che giungono a mettere in discussione princìpi irrinunciabili come la cultura del limite o il principio di precauzione.
Questi dati, segnati da spinte contraddittorie e talvolta contrastanti, vanno tenuti ben presenti da chi come noi punta a cambiamenti radicali nel segno della sostenibilità. Non possiamo permetterci di "dimenticare" la realtà: non se lo permette Legambiente e non dovrebbe permetterselo l’ambientalismo. Si tratta di un punto cruciale, sollevato anche dalle recenti polemiche che hanno visto taluni chiederci ragione del nostro "riformismo", opponendoci parole d’ordine apparentemente più coerenti con gli ideali ambientalisti – come il rifiuto dell’energia eolica o la cosiddetta opzione zero nel campo dei rifiuti -, che concretamente si risolvono in una giustificazione all’immobilismo. La differenza che va ribadita e sottolineata resta quella fra chi fa della denuncia e della protesta, quasi sempre giuste e necessarie, l’inizio ma anche il termine, di fatto, della sua azione e chi, invece, prova a governare i proc
essi verso la realizzazione della scelte di sostenibilità: e allora la strategia impone di non schiacciare la tendenza sull’atto, di non pretendere l’immediata attuazione di tutti gli obiettivi di fondo.
Il presente documento, frutto di una riflessione proposta da Gianni Mattioli e Massimo Scalia e condivisa con il direttivo nazionale di Legambiente, non è un’elaborazione teorica ma il tentativo di offrire spunti operativi per politiche economiche che rechino forte il segno della sostenibilità. In questa fase, il nostro primo interlocutore è l’Unione di centrosinistra, e ad essa in primo luogo ci rivolgiamo: non perché non auspicheremmo un dialogo serrato e costruttivo anche con la Casa delle libertà, ma per la banale evidenza che cinque anni di governo Berlusconi – dal condono edilizio alla legge delega ambientale – consegnano al Paese una coalizione di centrodestra "ambientalmente insostenibile".
QUALE STRATEGIA PER IL CAMBIAMENTO?
Alla situazione di crescente sofferenza dell’economia italiana, il centrosinistra generalmente risponde con una "ricetta" che individua nel rigore delle politiche di bilancio e nel rilancio della ricerca scientifica e dell’innovazione le condizioni prioritarie per ridare competitività alle nostre imprese. Non vi è dubbio che l’alto debito pubblico resta un fattore di formidabile ostacolo alla competitività dell’Italia. E altrettanto si può dire dello scarso investimento in ricerca e innovazione.
Ma tali indicazioni, e in particolare l’appello a "più ricerca, più innovazione", rischiano di rimanere generiche se non si colgono, da una parte, quegli aspetti di carattere internazionale di una crisi che riguarda le produzioni di beni di consumo individuali, su cui ci siamo già soffermati, e dall’altra, la specificità dell’ impianto produttivo italiano caratterizzato per il 98% da piccole e medie (< 50 addetti) imprese. Questa struttura delle imprese spiega la propensione a scegliere, piuttosto che il rischio connesso con la ricerca scientifica, la via dell’innovazione incrementale applicata a brevetti e licenze altrui. Ciò ha prodotto uno scenario in cui sia il numero limitato di grandi imprese che la miriade di imprese medio-piccole si trovano a fronteggiare una competizione i cui protagonisti internazionali fruiscono di apparati di ricerca e di risorse finanziarie di ben altra solidità.
Proprio misurata su questi nodi strutturali, la questione della sostenibilità, oltre a vestire i caratteri di urgenza ambientale e di necessità etica, si presenta anche come straordinaria occasione proprio dal punto di vista del rilancio produttivo del Paese. Si tratta cioè di considerare gli interventi per la riqualificazione urbana e la ristrutturazione antisismica, la difesa del suolo e il governo del territorio, l’uso efficiente dell’energia ("risparmio energetico") e la produzione da fonti energetiche rinnovabili, la buona gestione delle risorse idriche, il riequilibrio della mobilità delle merci e dei passeggeri, la prevenzione sanitaria, l’agricoltura multifunzionale, la salvaguardia e la valorizzazione del bene ambientale e della biodiversità, il turismo di qualità, il buon trattamento dei rifiuti, la ristrutturazione ecologica di processi produttivi, l’innovazione di prodotto, la valorizzazione dei beni artistici e delle produzioni locali di qualità, non solo come elementi importanti per la qualità della vita, ma come scelte di politica economica, scelte per la competitività. E allora occorre individuare gli strumenti organizzativi e legislativi e le politiche fiscali incentivanti, che meglio consentano la valorizzazione di queste produzioni.
In sintesi, si tratta di passare dalla produzione di quantità alla produzione di qualità, di qualità della vita, di economia della bellezza.
Quando parliamo di economia della bellezza ci riferiamo non solo al ruolo sempre più importante che dovrà assumere la valorizzazione del patrimonio immenso dei beni artistici e delle produzioni locali, e delle attività collegate come il turismo, ma anche all’accresciuta sensibilità del consumatore verso il prodotto di qualità. E ci riferiamo, anche, alla necessità di porre un argine al consumo edilizio del suolo, tuttora galoppante in Europa e ancora di più in Italia malgrado i trend demografici stabilmente in diminuzione. Dunque una prospettiva di vita più sobria, in cui la nostra identità è caratterizzata più che dalla quantità di ciò che possediamo e consumiamo, dal ben vivere per tutti: la salute, la città conviviale, i servizi efficienti, la fruibilità dell’ambiente. Una prospettiva che certo è imposta dalla necessità di ridurre la pressione sull’ambiente e sulle risorse naturali, ma che sempre più persone considerano pure "desiderabile".
E’ bene sottolineare che l’ampio quadro dei settori indicati – dalle tecnologie per le fonti energetiche rinnovabili alle tecnologie per la gestione di servizi – supera una contrapposizione fittizia tra manifattura ed economia della conoscenza così cara ad alcune analisi dell’impianto produttivo italiano. Sicuramente la salvaguardia della salute e dell’ambiente spinge verso la smaterializzazione delle produzioni, ma si tratta, appunto, di un processo che non permette generiche assolutizzazioni: il criterio della sostenibilità induce piuttosto ad operare scelte di merito nell’uno e nell’altro campo.
I settori qui indicati come motori di un’economia sostenibile richiedono spesso innovazione tecnologica, competizione e necessitano di indirizzi mirati di ricerca scientifica e tuttavia, a differenza dei settori di produzione di beni di consumo individuali, materiali o immateriali, presentano alcuni aspetti peculiari favorevoli:
1) il bene che viene offerto al consumatore è in generale ubicato localmente (non può essere prodotto in Romania o in Cina!);
2) esiste un mercato con prospettive assai significative: sicuramente, ad esempio nel settore energetico;
3) la concorrenza internazionale, pur presente, non si spinge a quel livello di esasperazione che è oggi caratteristico di gran parte del mercato dei beni che rispondono a bisogni individuali.
D’altra parte, è quasi superfluo sottolineare la ricaduta positiva di tali strategie anche al di là del dato meramente economico: è evidente, per esempio, che questa "economia della qualità" richiede e al tempo stesso favorisce un generale miglioramento della qualità culturale tra le comunità e nei territori, un Paese più colto, una scuola bene comune non privatizzabile.
QUALI CONDIZIONI PER SOSTENERE IL CAMBIAMENTO?
Il decollo di questa prospettiva deve avvenire nel contesto generale di politiche pubbliche di investimento – aperte poi agli investimenti privati – che valgano ad incentivare e sostenere la domanda dei beni e dei servizi proposti. L’offerta di condizioni di convenienza per l’investitore privato è infatti uno degli aspetti essenziali, in una società di mercato, per attuare una progressiva riconversione di settori importanti dell’economia verso le produzioni del "ben vivere".
Naturalmente, la concreta esistenza di tali condizioni non dipende soltanto da politiche economiche in senso stretto: vi sono fattori "indiretti" ma non meno decisivi, che in questa sede ci limitiamo a nominare ma che dovranno avere un ruolo centrale in una strategia di sistema per rilanciare la competitività dell’Italia nel segno della sostenibilità. Due ci sembrano imporsi su tutti: un’azione molto più decisa di contrasto dell’illegalità diffusa, potentemente incentivata dalla spirale di condoni, e della grande criminalità, che oltretutto sempre più spesso indossa il volto dell’aggresione all’ambiente e delle ecomafie; e interventi per elevare il tasso di scolarizzazione superiore e universitaria, avvicinandolo agli standard europei.
Al
tempo stesso, è importante che vengano promosse e sostenute tutte le esperienze di economia solidale e sociale, dal terzo settore al commercio equo e solidale: forme che danno concretezza a un’idea di produzione della ricchezza non soltanto quantitativa e fondate sulla sussidiarietà orizzontale e sul protagonismo delle comunità. Quanto allo strumento della fiscalità, esso dovrà servire a incentivare le scelte di sostenibilità – anche ricorrendo alla forma della "tassa di scopo", che permette un maggiore controllo da parte dei cittadini sull’impiego delle risorse prelevate -, e ciò nel pieno rispetto degli obiettivi, prioritari per ogni intervento fiscale, di redistribuzione delle risorse e di sostegno alle fasce sociali più deboli: spetta alla politica, cioè, governare i caratteri del prelievo e poi i programmi di investimento perché prevenzione sanitaria, città vivibile o godimento del bene ambientale diano realizzazione efficace ai diritti di cittadinanza.
Asse portante della fiscalità ecologica applicata alle produzioni resta il criterio della neutralità già sperimentato con il ricorso alla "carbon tax": in partenza, incremento degli oneri sulle risorse fisiche utilizzate e contemporaneo sgravio del costo del lavoro e, successivamente, guadagno netto per l’impresa nel caso di risparmio delle risorse fisiche.
Come si è già detto, lo sviluppo dei settori indicati impone un forte impulso alla ricerca scientifica, sulla base di progetti mirati e nel quadro dei programmi europei.
Ma la produzione della nuova conoscenza necessaria a soddisfare le necessità di un’economia sostenibile non può, in generale, essere lasciata interamente al mercato. Nel nostro Paese, poi, la produzione di nuova conoscenza non può essere lasciata al mercato anche a causa della struttura polverizzata dell’apparato produttivo, su cui ci siamo già soffermati.
La ricerca necessaria per aprire la via a un’economia sostenibile deve essere prevalentemente pubblica. Cosa significa pubblica? Significa in primo luogo che deve anteporre gli interessi pubblici a quelli privati. Ed è interesse pubblico, oggi, innanzitutto approfondire la conoscenza dei termini dello sconvolgimento ambientale e dei limiti delle risorse disponibili, per valutare le correzioni da adottare con maggiore urgenza, così come è di interesse pubblico la ricognizione degli effetti a medio-lungo termine di applicazioni di innovazioni tecnologiche che il privato spinge a commercializzare in un’ottica prevalente di profitto.
Ma ricerca pubblica significa anche mettere i risultati ottenuti a disposizione di tutti i privati che intendono investire capitali nella trasformazione di questi risultati in prodotti vendibili sul mercato. E bisogna potenziare quelle reti territoriali – regioni, distretti – che, tramite organismi di incontro tra le università e gli enti di ricerca, da una parte, e le imprese, dall’altra, aiutino l’ingresso delle imprese nella rete della circolazione dei risultati e degli indirizzi della innovazione tecnologica.
L’altra condizione principale per la realizzabilità di questo programma è, per tutte le iniziative previste, la partecipazione e il controllo da parte dei cittadini, che devono poter assumere piena responsabilità nell’avanzamento dei vari interventi: ma, perché questa non resti una mera petizione di principio, bisogna prevedere nell’ordinamento sedi appropriate, ad esempio "comitati di utenti" dotati di poteri di sanzione nei confronti dei gestori pubblici e privati, e per ciò rafforzati da organismi tecnici di consulenza.
Particolarmente importante appare questa tematica per il settore dei beni di interesse generale, energia ed acqua in primo luogo. Si tratta infatti di ambiti in cui politiche di cessione di ruolo pubblico al privato sono state effettuate. Decisamente fallimentare è il bilancio nel caso dell’energia, dove, in assenza di un’efficace funzione di guida della politica, e con il processo di liberalizzazione insufficiente o nemmeno avviato come nel caso del gas e comunque non governato, la privatizzazione è diventata un inaccettabile monopolio privato, non ha migliorato la sicurezza della fornitura rispetto ai rischi di black out, non ha ridotto il costo dell’energia per gli utenti, non ha risollevato il settore dell’elettromeccanica dalla sua crisi , non ha promosso le condizioni di un decollo delle fonti energetiche rinnovabili che somigliasse al deciso impegno attuato dalla Germania, dalla Spagna, dalla Danimarca o dall’Austria.
Anche nel settore dell’acqua, pur in presenza di una buona legge che, mentre sanciva solennemente il carattere di bene pubblico delle risorse idriche, rendeva possibile attribuire al privato a gara la gestione del servizio, i risultati dell’apertura ai privati non sono stati certo positivi; fallimento dei pochi casi di privatizzazione concretamente realizzati, assenza di soggetti privati nazionali credibili, inerzia delle pubbliche amministrazioni interessate a mantenere lo status quo: tutto ciò ha contribuito allo stallo della legge del ’94, mentre nel contempo, aumentavano le tariffe senza che migliorasse il servizio.
Mentre ribadiamo che la privatizzazione dei servizi dei servizi di fornitura dei beni comuni, e in particolare dell’acqua, è una via inaccettabile su scala globale, se applicata a Paesi dove il problema è garantire a tutti acqua potabile e sufficiente e dove mancano sistemi di controllo democratico consolidati e trasparenti, nel caso dell’Italia osserviamo che la memoria degli aspetti fortemente negativi che caratterizzavano la precedente situazione di gestione pubblica di energia e acqua rende improponibile una ripubblicizzazione tout court per la gestione di questi settori. Di più, riteniamo che concentrarsi unicamente sul problema degli assetti societari trascuri il nodo centrale dell’uso razionale delle risorse – tra i problemi più vistosi lo spreco di risorse idriche in settori come l’agricoltura – e della lotta alle varie forme di inquinamento. D’altra parte è del pari inevitabile la riflessione critica sui provvedimenti di privatizzazione adottati, alla luce della esperienza di questi anni.Per l’energia, un passo decisivo è quello di promuovere con forza forme di produzioni diffuse basate soprattutto sulle rinnovabili ma anche sulla microcogenerazione, rimuovendo le barriere tuttora esistenti; per i servizi idrici – anche al fine di rendere finalmente attuata la legge del ’94 – si tratterà piuttosto di trovare forme innovative per rendere protagoniste le comunità locali nella partecipazione al governo dei servizi idrici in una logica di bacino.
Sono queste le linee essenziali di "una politica economica per la sostenibilità" sulle quali Legambiente propone il confronto e l’approfondimento.
Esse rimandano, come si vede, ad un insieme di interventi che rispondono agli obiettivi della sostenibilità e del rilancio dell’impianto produttivo del Paese, in un quadro teso a realizzare equità sociale e, con l’Europa, una missione di riequilibrio dello scambio ineguale nel pianeta.
della decrescita o dello stato stazionario dell’economia, che periodicamente appassiona settori dell’ambientalismo e della sinistra. Agli "sviluppisti", tuttora largamente presenti in ogni settore del centrosinistra, sarà forse inutile ripetere quello che quarant’anni di ambientalismo scientifico – da Kenneth Boulding a Georgescu-Roegen – hanno proposto come critica al concetto di "crescita" e alla sua quantificazione tramite il tasso del Pil; e proprio riguardo alla valutazione di questo indicatore e anche accettando la sua grossolanità, sarà bene ricordare i giudizi critici sviluppati in questi anni, anche in sedi istituzionali italiane, sulla quantificazione dei parametri utilizzati, affetta in particolare dalla propagazione degli errori, inevitabile quando si combinano i dati per calcolare, appunto, i parametri di crescita.
D’altra parte la "decrescita" declinata in alternativa allo sviluppo sostenibile non ci pare una concreta proposta per soddisfare i bisogni collettivi e individuali né nel mondo ricco e industrializzato né nei Paesi poveri i cui popoli hanno sicuramente bisogno di "crescita", seppure diversa da quella proposta dal modello occidentale. Cosa diversa, naturalmente, è impegnarsi per una riduzione su scala globale dei consumi di materie prime e di energia, battersi contro l’economia dello spreco così diffusa nei Paesi industrializzati: questi sono obiettivi irrinunciabili per qualunque progetto di economia sostenibile.
Ci sembra pertanto che il problema non sia tifare per un Pil a tasso positivo o negativo e che, invece di prendere partito a priori per le diverse "teorie"- talora un po’ fumose e mal definite – occorra invece analizzare il merito delle diverse possibili iniziative, e valutarne la coerenza con gli obiettivi che ci stanno a cuore: lo ripetiamo, sostenibilità ambientale nel quadro dell’avanzamento nella società delle condizioni di solidarietà e di pari opportunità per tutti.
Allo stesso modo, pare del tutto improprio e fuorviante ridurre le opzioni possibili all’alternativa tra politiche neo-liberiste e stataliste. Il neo-liberismo, le cui sirene hanno attratto una parte della sinistra che si definisce riformista, va combattuto, soprattutto perché tende a mercificare ogni bisogno e domanda sia individuali che sociali e a circoscrivere il ruolo regolatore dello Stato, e perché – come si è detto – finisce spesso per produrre privatizzazioni senza liberalizzazioni e a dosare "laissez-faire" e protezionismo in base alle convenienze degli interessi economici più forti. Ma occorre respingere anche l’idea, cara a tanti economisti della sinistra radicale, che la panacea sia in un ritorno a politiche assistenziali o addirittura alla pratica di finanziare le spese sociali con il debito pubblico, e che la sola redistribuzione del reddito in favore delle classi deboli sia sufficiente garanzia di miglioramento della qualità sociale.
Oggi l’ambientalismo deve proporsi un obiettivo più ambizioso che non testimoniare la crisi ecologica o fiancheggiare opzioni ereditate dal passato. Deve provare a nutrire delle proprie ragioni un’idea riformista e radicale al tempo stesso com’è la costruzione di un’economia che assuma il criterio ambientale, accanto a quello dell’equità sociale su scala sia locale che globale, come misure decisive e irrinunciabili del contenuto di progresso e benessere dello sviluppo.