“Finché sarà consentita la pratica dei trasbordi d’alto mare, per l’industria ittica sarà praticamente impossibile garantire prodotti provenienti da una pesca sostenibile ed eticamente accettabile”: così Giorgia Monti, responsabile campagna Mare di Greenpeace Italia, commenta quanto emerso da un recente rapporto di Greenpeace South Est Asia che ha puntato il dito contro nuove violazioni dei diritti dei lavoratori e illegalità nella pesca fatta da diversi pescherecci thailandesi. In molti negli ultimi anni hanno infatti spostato le attività di pesca in aree di mare sempre più remote, dove riescono a sfuggire alle regole. La denuncia “Turn the Tide”, report di Greenpeace South Est Asia, che ha diffuso i risultati di un’indagine durata circa un anno grazie alla quale sono venuti fuori, a bordo di pescherecci thailandesi attivi in Oceano Indiano, casi di pesca illegale, traffico di lavoratori (trafficking) e altri abusi dei loro diritti, tra cui pessime condizioni di lavoro causa di incidenti mortali.

“”Quanto da noi raccolto evidenzia le folli pratiche delle flotte tailandesi che operano in aree remote d’alto mare, al di fuori di ogni controllo – spiega Giorgia Monti – Tali illegalità sono possibili grazie alla dannosa pratica dei trasbordi in alto mare, che permettono ai pescherecci di rimanere per periodi lunghissimi lontano dalla terra ferma, trattenendo per molto tempo gli equipaggi a bordo, spesso in condizioni terribili”. L’indagine rivela che 76 pescherecci d’oltremare thailandesi, per sfuggire ai più rigorosi controlli adottati nel 2015 in Indonesia e Papua Nuova Guinea, hanno spostate le proprie attività di pesca in un’area remota dell’Oceano Indiano. Approfittando della possibilità di non tornare in porto e trasferendo pesce alle grandi navi frigorifero, e lontani dai controlli, “le flotte d’oltremare thailandesi hanno continuato in tale area a portare avanti pratiche illegali molto simili a quelle che in precedenza avevano attirato l’attenzione delle autorità – denuncia Greenpeace – Pratiche come la pesca distruttiva in fragili ecosistemi marini o illegale. O ancora l’impiego a bordo delle navi di lavoratori vittime di traffici, abusi fisici, spesso sottopagati e, in alcuni casi, talmente malnutriti da ammalarsi di patologie letali che si credevano scomparse da decenni, come il beriberi, causata da mancanza di vitamina B1”.

Greenpeace ha scoperto che il pesce trasferito poi in Thailandia finisce nelle filiere delle più grandi compagnie thailandesi che producono prodotti ittici per il mercato internazionale. “È arrivato il momento – commenta Monti – che le grandi compagnie decidano di bandire dalle proprie produzioni il pesce trasbordato in mare. Occorre inoltre che si ponga particolare attenzione sulle catene produttive ancora oggetto di irregolarità, come quella thailandese. Solo con scrupolosi controlli e audit terzi, le scelte dei consumatori potranno essere davvero tutelate”.


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