La denuncia è stata fatta a più riprese: i nostri mari si stanno riempiendo di plastica. Non solo buste intere che vengono ingerite dalle meduse, ma frammenti sempre più piccoli, microplastiche e nanoplastiche, che finiscono nel plancton e nell’intera catena alimentare marina. Con quali conseguenze? Nei pesci il risultato è impressionante – aumenta la mortalità – nell’uomo i dati tossicologici sono ancora pochi. Ma bisogna pensarci per tempo: secondo Legambiente il 96% dei rifiuti galleggianti in mare è composto da plastica (di cui il 16% sono buste) e l’89% della fauna marina rischia di ingerirla.

Su questi temi si sono concentrate alcune conferenze durante l’evento Slow Fish che si è svolto a Genova, organizzato da Slow Food Italia e dalla Regione Liguria in collaborazione con il Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali e dal Comune di Genova. La plastica in mare si frantuma in microscopici frammenti che entrano nella catena alimentare: le microplastiche hanno dimensioni inferiori ai 5 mm e a loro volta si frammentano in nanoplastiche, invisibili all’occhio umano, rilasciando in mare composti chimici tossici quali ftalati, perfluorurati, ritardanti di fiamma, per citarne solo alcuni. In alcune zone del mondo, è stato evidenziato durante le conferenze di Slow Fish, si arriva ad avere cento chili di microplastiche in un chilometro cubo di mare. Queste entrano nel plancton e via via risalgono la piramide alimentare marina.

La ricerca si sta concentrando su questi fenomeni ma è recente: il 60% della letteratura scientifica sull’argomento è stato prodotto negli ultimi 15 anni. Fra le evidenze scientifiche, ha spiegato Alberta Mandich, endocrinologa ambientale del Dipartimento di scienze della terra di UniGe: “Abbiamo alimentato due batterie di spigole con mangimi differenti: uno convenzionale e l’altro con aggiunta di microplastiche”. Risultato? Nel primo caso la percentuale di mortalità è rimasta ferma intorno al 3%; nel secondo è schizzata al 63%. Infertilità, intersessualità, indebolimento delle barriere protettive dell’organismo sono effetti degli inquinanti che interferiscono con il sistema di produzione ormonale. Gli effetti sull’uomo ancora vanno studiati. Secondo Claudia Bolognesi, responsabile dell’Unità carcinogenesi ambientale dell’Ospedale San Martino di Genova, “gli studi non confermano l’assorbimento di microplastiche da parte dei tessuti umani”, ma allo stesso tempo la studiosa ammette che “i dati tossicologici sono ancora pochi”. Questo dunque è un campo da studiare, anche perché il rischio di assorbire microplastiche per l’uomo deriva non solo dal pesce ma anche da oggetti di uso comune, come cosmetici, dentifrici, shampoo, trucchi e creme solari.

Da Slow Fish arriva poi un quadro sui consumi di pesce. Un nuovo report del WWF, Gusti locali, mercati globali – Le risorse ittiche e il Mediterraneo, fa il punto sui consumi europei e mira a mostrare da dove viene il pesce che mettiamo in tavola e come possiamo fare per migliorare una situazione che sotto molti punti di vista non è certamente rosea. I prodotti ittici nel mondo sono la fonte di proteine per 3 miliardi di persone e il reddito di 800 milioni di persone si fonda sulla pesca e sull’industria ittica. Nel 2014 nei paesi europei sono stati spesi 34,57 miliardi per acquistare prodotti ittici. In totale nei paesi europei si consumano 7,5 milioni di tonnellate di pesce all’anno (33,4 chili pro capite contro i 19,2 chili consumati in media a livello globale). Di questi, 2,75 milioni di tonnellate sono pescati localmente, i restanti 5 milioni sono prodotti di importazione.

Gran parte del pescato che arriva sulle tavole europee è importato. Un tempo “il Mediterraneo possedeva una quantità di stock ittici superiore alle necessità, che supportava intere comunità e forniva un elemento chiave della famosa dieta salutare mediterranea. Dal polpo al tonno rosso, dai gamberi di acque profonde al pesce spada, tutto il pescato proveniva dal mare antistante”, spiega il WWF. Oggi, invece, il pescato che finisce sulle tavole europee è importato, e per la maggior parte proviene dai paesi in via di sviluppo. Differenze ci sono naturalmente da specie a specie: per le sardine e le acciughe ci si affida a pesce interamente pescato localmente, mentre nel caso di tonni e pesci spada il pescato locale costituisce appena il 25% e in quello dei cefalopodi i prodotti di importazione costituiscono addirittura l’82%. Nel Mediterraneo il rischio è dato dalla pesce eccessiva, che minaccia il 93% degli stock ittici.

Di fronte a questa situazione, però, non è vero che il consumatore è disarmato: con le sue scelte può invece dare un contributo a invertire la rotta. Come? Informandosi sull’origine del pesce che si acquista; privilegiando il pescato locale; comprando prodotti industriali certificati; in generale, alzando il livello di biodiversità dei piatti.


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