clima

A Durban si è raggiunto un accordo che per la prima volta comprende tutti i Paesi del mondo. Cosa succederà? Abbiamo raccolto le impressioni di Vittorio Prodi, eurodeputato Pd e membro della commissione Ambiente a Bruxelles.
Dopo la conferenza internazionale sul clima di Durban in Sudafrica è stato trovato un accordo generale su un trattato globale per la prima volta comprendente tutti i Paesi del mondo a partire dal 2020, l’estensione del protocollo di Kyoto (Kyoto 2) dal 2013 al 2017 (senza i soliti Usa, Cina e India e con il rifiuto di Canada, Russia e Giappone) e l’istituzione di un nuovo Fondo verde da 100 miliardi di euro l’anno.
Cosa ne pensa dell’esito finale della conferenza di Durban?
Sono più deluso che soddisfatto. Di buono c’è che non si butta via il protocollo di Kyoto. Ma rimandare l’inizio del nuovo trattato al 2020 è davvero troppo tardi, non possiamo aspettare fino ad allora. Spero si riescano a prendere misure preventive. L’Ue si è molto adoperata in questa direzione, ma bisogna agire prima. È positivo che anche la Cina abbia aderito alla riduzione delle emissioni a partire dal 2020, ma resta il sospetto che voglia farlo solo per diventare leader nelle rinnovabili.
L’Europa è davvero sola contro tutti nella difesa del clima?
L’obiettivo di un’Europa “decarbonizzata” entro il 2050 è ambizioso ma realizzabile. Possiamo passare alle rinnovabili entro il 2050, ma a questo punto dobbiamo dimostrare che possiamo farcela da soli. A quel punto potremmo valutare la possibilità di mettere dei dazi alla frontiera nei confronti dei Paesi che inquinano di più. Si tratta di una sorta di piano B. Ne ho parlato ai commissari Ue all’Energia Günther Oettinger e al cambiamento climatico Connie Hedegaard, ma mi devono ancora rispondere. Il piano principale resta comunque Kyoto.
Un esempio di questo isolamento è dato dalla battaglia dell’Ue con Usa e Cina sulle emissioni degli aerei.
Proprio in questi giorni si sta combattendo una battaglia diplomatica sulle emissioni di Co2 da parte dell’aviazione civile internazionale, anche se oggi i prezzi sono moto bassi, circa 30 centesimi per una tonnellata di Co2. La difficoltà di fondo è che l’Ue ha troppo disciplinato il settore dei gas ad effetto serra, ci sono troppi sotto settori. Sarebbe più importante operare una semplificazione generale, ovvero creare un meccanismo di mercato più agile per trovare la via più rapida e meno costosa di raggiungere l’obiettivo. Mettere insieme le emissioni generate per la produzione di energia elettrica, trasporti aerei, marittimi e su strada, e questo per essere più rapidi e guadagnare in semplicità. Sottoponiamo tutti i combustibili fossili a questo regime e non ci sarà più bisogno di guerre particolari come quelle di oggi sull’aviazione.
Canada, Russia e Giappone si sono addirittura tirati fuori da Kyoto 2.
Per il Canada bisogna fare un ragionamento specifico. La situazione è dovuta all’eccessivo ottimismo riguardo alle sabbie bituminose del Paese (una combinazione di argilla, sabbia, acqua e bitume, dalle quali si estrae un bitume simile al petrolio che può essere convertito in petrolio grezzo sintetico o raffinato, ndr). Loro si sentono già una potenza petrolifera e quindi pensano siano conveniente abbandonare Kyoto per potersi maggiormente sviluppare. Personalmente penso sia una confidenza eccessiva. Senza dimenticare i danni ambientali del petrolio. Ad esempio questo tipo di estrazione genera una grande quantità di sabbie ancora parzialmente intrise di petrolio che devono essere smaltite in qualche modo. Per quanto riguarda la Russia, invece, questa è costretta a vivere di esportazione di materie prime da una produzione che stenta a mettersi al passo con i Paesi sviluppati. Stesso discorso vale per il Giappone.
E gli Stati Uniti?
A mio avviso gli Stai Uniti non saranno mai d’accordo su obblighi internazionali di riduzione delle emissioni. Secondo loro c’è un problema di fondo: la sovranità. Gli Usa non faranno mai niente contro la loro sovranità assoluta, è una pia illusione. Si dovrebbero invece rendere conto che la globalizzazione ci ha messi in uno stato di interdipendenza tra tutti i Paesi del mondo. Questo vuol dire che la nostra sovranità non è più assoluta, dobbiamo trovare un consenso internazionale per gestire questa interdipendenza.
Che ruolo potrebbe giocare in tutto questo la crisi della zona Euro?
Bisogna capire che non si tratta di dare una mano di verde all’Europa, ma di capire che se vogliamo migliorare la nostra sostenibilità allora dobbiamo sviluppare una civiltà diversa da quella attuale, ovvero non solo basata solo sulla produzione materiale, che pure deve essere gestita in modo efficiente, ma anche su altri aspetti essenziali per la nostra qualità di vita e che non rientrano nel comune concetto di Pil. Penso ad esempio al bene comune e alla solidarietà, concetti che richiedono meno energia e meno risorse naturali per essere sviluppati.
Che ruolo può giocare l’Italia?
L’Italia può fare molto perché abbiamo delle tecnologie nel campo dell’eolico, del solare e della biomassa con ampi margini di sviluppo. Naturalmente bisogna fare più affidamento sull’Unione europea. Un’ottima iniziativa sono ad esempio i cosiddetti “project bond” (buoni progetto, ndr) ovvero risorse finanziare destinate a sostenere il passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili e le infrastrutture che servono a questi scopi.
di Alessio Pisanò
 


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