“O cotta o cruda, il fuoco l’ha veduta”. Il vecchio adagio che nonne e mamme ripetono spesso per giustificare piccoli o grandi insuccessi in cucina sembra non trovare un fondamento scientifico (strano!). La differenza tra un alimento crudo, bruciato, rosolato o cotto a puntino è sostanziale, anche in termini di ricadute sulla salute. Molte infatti sono le sostanze che si sprigionano nel processo di cottura degli alimenti e, ad alcune di esse converrebbe fare attenzione. Un esempio su tutti è dato dalla formazione di acrilammide. Ad approfondire la questione ci ha pensato il team “Acrylamide: the carcinogen in your plate” che ha realizzato un’approfondita ricerca scientifica condotta dall'”Art joins Nutrition” dell’Accademia Europea di Nutrizione Culinaria e dal “Dipartimento di Scienze dell’Alimento e del Farmaco” dell’Università di Parma.

Perché una ricerca sull’acrilammide? Lo studio ha avuto come finalità l’analisi dei migliori metodi di preparazione e cottura dei cibi per ridurre la formazione di acrilammide negli alimenti che consumiamo abitualmente, nonché mettere a punto uno strumento grafico che, in base al colore, definisce la presenza di acrilammide negli alimenti.

In pratica, una sorta di righello con sfumature di colori diversi ci dirà quando un cibo cotto è ancora salutare: si va dalle soglie sicure del verde a quelle che man mano virano a un rosso sempre più intenso, indicando percentuali gradualmente più elevate e dunque inaccettabili di acrilammide. Serve per far capire al consumatore quando la colorazione di un cibo cotto è giusta (dorata) e quando invece non lo è più (cioè quando si “veste” di quel marroncino via via più accentuato).

A questo punto sorge una domanda: la cottura è amica o nemica della nostra salute? Sicuramente, da un punto di vista nutrizionale, la cottura ha un effetto positivo sugli alimenti: il calore, infatti, non solo rende il cibo più salutare da un punto di vista igienico (inibisce e cancella gli enzimi e i microorganismi in grado di deteriorare un alimento rendendolo insalubre), ma ne migliora le caratteristiche organolettiche e la stessa esperienza gustativa e sensoriale. Tuttavia, bisogna considerare anche che le temperature elevate possono innescare una serie di reazioni chimiche che poi sfociano in composti tossici. L’acrilammide è proprio una neurotossina prodotta a seguito del processo di cottura la cui concentrazione in alcuni fra gli alimenti più diffusi e consumati ha richiamato, già dal 1994, l’attenzione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA).

Il suo accumularsi nell’organismo è da imputare al consumo costante di patate arrostite o fritte, ai prodotti da forno (torte, pani, biscotti, pizze) e caffè”, dichiara Chiara Manzi, presidente dell’Accademia Europea di Nutrizione Culinaria.

I fattori che ne causano la formazione nel cibo dopo questo è stato cotto sono tre: la presenza di asparagina (un aminoacido) e di zuccheri riducenti semplici: troviamo entrambi in patate, cereali, pizza, pani, cornflakes, crackers e caffè. Nelle farine integrali, in particolare, la loro percentuale è più alta rispetto alle farine raffinate; cotture (forni, griglie e fritture) con temperature superiori ai 120°C; la progressiva carbonizzazione dell’alimento in cottura.

L’acrilammide è invece assente nei cibi crudi, così come lo è negli alimenti lessati o cotti al vapore. Gli studi hanno evidenziato che più un alimento è “abbrustolito” (o grigliato o sfrigolato fino a fargli assumere una colorazione via via più intensa) più aumenta il livello di acrilammide.

Che fine faranno le amatissime patate arrosto? Resteranno nel piatto ma meglio cuocerle in maniera più “dolce”: al forno, meglio se combinato a vapore, a un massimo di 140-150°C, fino a conferire loro una seducente doratura che non sconfini nell’abbrustolatura.


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